L’impresa della salamandra

ATACAMA

Polvere che torna polvere, sale dal naso
tra case di adobe e charqui al
sole, in una visione tamburi lontani
oltre le valli salate, un nuovo
padrone,
poi altra polvere
da mani bruciate
a concimare tombe senza nome
a concimare tombe senza nome.

Sangue che copre sangue, lo pulisce la sabbia
dei Likan Antai che ritornano alla
terra divisa in terrazza; Pachamama a Quinoa
civaie e cotone, accolgono la
neve,
sciolta dalle Ande
del colore del sangue
per coltivare nuove religioni
avvelenate da nuovi stregoni.

Túpac Yupanqui, vestito di vigogna,
la vedi la fine che viene dal
mare? Bastoni di fuoco e guerrieri di metallo
su galeoni di legno, il futuro non si
sogna,
silenzio nell’altopiano
poi il rutto di un vulcano
per cancellare tombe senza nome
per dimenticare tombe senza padrone.

USHUAIA

Lo sai, faccio cose vecchie
con queste mani ruvide
“E’ legno che lascia schegge”
e a volte incontrano la musica.

Lo sai, faccio cose strane
con i pensieri ruvidi,
vieni a scaldarti in questo samovar di rame
e lasciati cullare

dalla musica la musica
la musica che non piange
la musica che ti protegge
la musica che non ti tradisce,
caso mai ti sveste.

Ushuaia, città di carbone e ghiaccio,
nascondila in qualche tua baia,
difendila da queste braccia,
portale soltanto un po’ di musica.

Martina arricci la bocca,
santa polena di architetti italiani
mi chiedi: “Di che diavolo parli?”
fattelo spiegare

dalla musica, la musica
la musica che non piange
la musica che ti protegge
la musica che ti sorprende

dalla musica, la musica
la musica che non piange
la musica che ti protegge
la musica che non ti tradisce,
caso mai ti sveste.

LA BOJE

La boje la boje e de boto la va fora
vivere con l’acqua alla gola.

“Questa terra non ci vuole più,
queste mani non si sporcheranno più,
la nostra schiena non la spezzerà al parun”
“Tasi e laora e basame ‘ncora con graspìa e poenta, te sogni l’America”.

Ci possono tradire i signori veneziani, illudere i francesi,
conquistare gli austriaci, reclamare i Savoia
persino chiamarci italiani,
ma il fiume non doveva…

Amico che ingrassi anofele e frumento in questa terra di malaria e di stenti,
caldo umido d’estate, freddo boia d’inverno,
piazze vuote tra un campanile e un cane e noi
condannati a campare

“Questa terra non ci vuole più
queste mani non si sporcheranno più
la nostra schiena non la spezzerà al parun”
“Non c’è lavoro soltanto miseria, con quel che ci resta si parte per l’America”

MANTOVA

Mentre cercavamo una scusa per stare insieme,
il fior di loto appassiva sul tuo lago che imbruniva.
In fondo ci sopportiamo, che di questi tempi non è poco
e nessuno vuole stare solo quando minaccia autunno.
Calda luce addormentata alleata e malandrina
per colpire le turiste dall’affaccio di San Giorgio,

inventando scene erotiche di Federico dei Gonzaga
e del suo amore che ci manca, a noi e alla salamandra
a noi e alla salamandra.

Quando ti ho suonato tu mi hai sempre rifiutato:
maledetta e opulenta, amante timida e insolente
virtuosa dell’inganno, isola incastonata
in mezzo a una palude, diamante di pianura
credevo che per conquistarti bastasse una chitarra
e qualche giro di parole sul rio che ti trafigge al cuore.

“Ramon non hai colpito” me ne tornerò in campagna
a prendere la pioggia, che l’acqua tua si secchi,
peste e lanzichenecchi.

Dai scherzo, facciamo pace che anche io ho i miei difetti,
figlio bastardo parlo un ferrarese irruvidito dal lombardo.
Lo ammetto, amo coccolarmi nel tuo odore di libri antichi,
di cioccolato e di cannella, mandorle, legno e vaniglia…
se Virgilio mi sentisse mi sputerebbe dritto in faccia,
scribacchino sceso ne l’Averno con lambrusco da borraccia.

Ma che ci posso fare se ti sento una madre?
Voi altre state buone, portate un po’ pazienza,
per me sei più bella di Venezia.

Ora si è fatto tardi e tu sei ancora meglio
spogliata dei villani travestiti da signori,
dalle finestre aperte lo sforchettare della cena
che sa tanto di casa e di primavera
invece son le ultime prima del letargo,
prima che il Mantegna ti perda nella nebbia.

Per strada le colonne mi guardano cattive
come tanti Sparafucile che aspettano Rigoletto,
ti saluto e me ne vado a letto.

Alzo le mani, hai ragione ma non riesco a dormire
fammi fare ancora un giro: danno Ophuls al carbone.
Mi ritrovo a passeggiare nel cortile del ducale:
tra un deserto di mattoni c’è chi stende un cartone,
mi mette un po’ tristezza e gli lascio un nichelino
per scacciare l’imbarazzo e per lavarmi la coscienza.

Niente in contrario se rimango fino a domani?
Colazione col salame, non sarà mangiare sano
ma son nato mantovano….

ALDO

Giovedì mattina io stavo bene,
giovedì mattina andavo a scuola,
venerdì e sabato tu mancavi,
la domenica vi invidiavo tutti:
maledetti orfani
voi non aspettate nessuno.

A me la Russia andava bene:
sveglia, ginnastica e alzabandiera,
pubblico biasimo, studio pranzo e cena.
Anche in prigione puoi sentirti a casa
basta farci l’abitudine
e pazientemente tirar fino a sera.

Della guerra spagnola non mi importa niente,
al futuro del mondo preferisco il presente,
soffro “Il Migliore”, il partito e tutta quella gente.
Di fare l’ingegnere chi se la sente…
farei il prete per starmene in disparte
e sentirmi chiamare solo Aldo
solo Aldo
e che Togliatti sia perduto
sia perduto.

ERIDANO

Primavera
Acqua di argilla, spuma di piena,
danza nella corrente
della vasta pianura ne sfiora la schiena
gioco a un eterno presente.
I pioppi ti osservano che corri veloce
prendendo in prestito gli occhi al pavone
spargono pappi fino alla foce
come pecore davanti ad Argo il pastore.

Noi poveri Cristi ogni tanto di sera
ti contempliamo dagli argini verdi
spunta un campanile o una chiesa
il resto è cielo fin dove ti perdi.
Dagli affluenti prendi vigore
dalla terra e non solo il tuo color caffè latte
le montagne danno il motore
al tuo andare sinuoso, deciso e costante.

Mi fermo a guardarti ancora un po’
chiudo gli occhi per sentire che passi
E ridano le nuvole di me
gonfie di pioggia pesanti come massi.

Estate
Acqua di secca, stagnante calura
sul greto segni d’incuranza dell’uomo
si arenano stanchi tra l’impalcatura
di tronchi e di rami che fanno da molo.
Le isole lussureggianti
covo di zanzare vampiro
riemergono misteriose Atlantidi
ciclicamente costrette al ritiro.

Il tasso barbasso peloso
innalza il suo stelo giallo
preda di qualche curioso
che lo porta in processione a candelabro.
Sudati dopo un lungo calvario
si buttano in golena a prendere il sole
sotterrando la falce e il rosario
I nipoti di Camillo e Peppone

Mi fermo a sognare ancora un po’
il mito incerto di Apollo e di Fetonte
E ridano le nuvole di me
mentre cerco le scie del carro all’orizzonte.

Autunno
Acqua mossa brilla al tramonto
ritorni a gonfiarti col vento
culla gli alberi ocra e amaranto
che ti consolano prima del freddo.
I pediluvi dei salici bianchi
sono mangrovie dei mar tropicali
pellegrini dai piedi stanchi
stanno togliendo i sandali e sollevando i gambali

In cerca costante di vermi e molluschi
i cefali riscendono al mare
lasciano l’ombra delle canne palustri
e ancora li vedi impazziti saltare.
Tu rallenti per salutare
pare non ti prenda la fretta
di tuffarti finalmente nel sale
e distendi la tua gonna increspata del delta.

Mi fermo a parlarti ancora un po’
e ascoltare il tuo silenzio mentre cambi
E ridano le nuvole di me
ti seguono sfumando in fantasmi.

Inverno
Acqua gelata penetra in fondo
le ossa quando arriva l’inverno
velo di sposa che sfoca lo sfondo
niveo che sembra l’eterno.
Nella selva ormai spoglia una voce
da lontano il lamento ferroso
come Ligabue imita il bruire della tigre feroce
una barca di pescatori di frodo

In una conca profonda
Sonnecchia ignaro il siluro
sotto le mitragliate sponde
tane del gruccione migrato al sicuro.
Tra i meandri dei tuoi pensieri
si affacciano merli di torri di guardia
diffidenti ci ricordano fieri
un medioevo che qui ancora si attarda.

Mi fermo e sono fermo da un po’
mentre tu continuerai a scorrere per molto
E ridano le nuvole di me
piccolo mortale nella tua bellezza
rimango assorto

TA PUM

Venti giorni sull’Ortigara senza il cambio per dismontà;
ta pum ta pum ta pum ta pum ta pum
Quando poi ti discendi al piano battaglione non hai più soldà;
ta pum ta pum ta pum ta pum ta pum
Quando sei dietro a quel muretto soldatino non puoi più parlà
ta pum ta pum ta pum ta pum ta pum
Ho lasciato la mamma mia l’ho lasciata per fare il soldà;
ta pum ta pum ta pum ta pum ta pum
Dietro al ponte c’è un cimitero cimitero di noi soldà;
ta pum ta pum ta pum ta pum ta pum
Cimitero di noi soldati forse un giorno ti vengo a trovar;
ta pum ta pum ta pum ta pum ta pum

 

A TE CHE ASPETTI IL TRENO

Cosa ti posso dare a te che aspetti il treno?
Sarebbe semplice dire: “Afferra la mia mano”
per poi lasciarla scivolare
quando ti si apre il cuore.

Cosa ci facciamo noi due davanti a questo cielo
senza stella polare, di notte in mezzo al grano?
Neanche un paracadute
per poter atterrare.

Cosa ti posso dare ora che hai perso il treno?
Afferra la mia mano
e godiamoci il cielo.